venerdì 3 marzo 2017

Lavoro: opportunità, utopie o frustrazioni?



Il caso di Michele, il ragazzo di 30 anni che ha lasciato una arrabbiata e struggente lettera di addio prima del suo suicidio, e quello di Martina, 36enne assunta da un’azienda veneta al nono mese di gravidanza, sono due casi dall’esito diametralmente opposto, che mettono al centro dei discorsi il mondo del lavoro e ne mettono in risalto luci e ombre.
Due storie che vedono come protagonisti, loro malgrado, due persone della stessa generazione che si trovano a vivere quello che dovrebbe essere uno dei momenti professionali centrali della vita in un’epoca particolarmente faticosa, a causa di un contesto economico e sociale dove, lo sentiamo dire tutti i giorni, i “giovani” hanno poche opportunità di realizzare i propri sogni professionali, per non parlare del semplice bisogno di portare “la pagnotta” a casa.
Le aziende, è inutile negarlo, sono alla ricerca del meglio a meno, su tutti i fronti, e se da un lato si cerca di risparmiare su materie prime, costi di trasporto e manodopera, dall’altro sono in poche a voler rinunciare alle prestazioni, che si tratti di una macchina o un essere umano.
Le condizioni economiche attuali ci portano a puntare alle performance, spesso non tenendo conto del valore delle persone e (spesso) non considerando le storie personali.
Per questo colpiscono il caso di Martina e Michele, perché sono due storie di persone, due volti che personificano gli angeli e i demoni di cui sentiamo parlare giornalmente da tv, telegiornali, trasmissioni di approfondimento: disoccupazione, discriminazioni e frustrazioni in ambito lavorativo.
Dietro a tutto ciò di cui sentiamo parlare, raccontare, spesso numeri alla mano, ci sono delle storie, delle persone con le proprie esperienze, i propri vissuti, le proprie emozioni. 
Dietro a ognuno di quel 12% di disoccupati in Italia (di cui il 40,1% sono giovani tra i 15 e i 24 anni) ci sono storie, spesso fortunatamente non così drammatiche come quelle di Michele, ma purtroppo non sempre fortunate come quelle di Martina.
Sappiamo quanto un grosso peso lo rivestano i fattori economici micro e globali, ma in ogni storia hanno anche peso le persone che la popolano, gli incontri, le circostanze.
Gli individui, poi, hanno ognuno il proprio modo di filtrare quello che gli si para davanti, la realtà che forse non è mai veramente oggettiva e neutrale come si vuol credere. 
Michele ha espresso attraverso il suo scritto rabbia e frustrazione, un giovane che si è visto privato della speranza e del futuro, e questo lo ha portato a sentire un grande peso da non poter gestire. Il peso del rifiuto, la fatica di vedersi continuamente le porte sbattute in faccia, probabilmente lo avranno fatto sentire ad un certo punto così triste e depresso da giungere all’amara decisione che tutti conosciamo.
Ora, non sappiamo esattamente cosa questo ragazzo abbia vissuto, quali rifiuti abbia subito, ma sappiamo che la realtà per come appariva al povero Michele era insostenibile, e non possiamo mettere in discussione questo, lo dobbiamo accettare, così come la sua seppur amara decisione.
A Martina invece è stata data un’opportunità; un’opportunità di quelle che fanno parlare, che risuonano nei titoli dei giornali, perché purtroppo non accadono spesso. Martina probabilmente se le sarà cercate queste opportunità e probabilmente (non lo sappiamo) avrà avuto anche lei le sue porte sbattute in faccia. Fatto sta che un po’ grazie a se stessa, al suo talento e alle sue qualità, al suo “coraggio” nel presentarsi ad un colloquio di lavoro prossima al parto, ma anche grazie alla lungimiranza di un imprenditore che le ha dato un’opportunità, è riuscita a firmare un contratto per un impiego nelle condizioni di quasi puerpera che, al giorno d’oggi, sappiamo essere un evento praticamente più unico che raro.
Queste due storie, accomunate dal tema del lavoro, sono molto differenti nel loro svolgimento e nel loro epilogo; da un lato entrambe ci insegnano che la realtà dei fatti ha un suo peso nell’evolversi delle storie e sui “destini”; dall'altro lato dimostrano che esistono fattori individuali come le attitudini, le esperienze e le competenze individuali che influenzano come le persone interpretano gli eventi che capitano loro e come fanno fronte ad essi. 
L'attitudine è la componente più innata, che porta una persona ad essere più portata per la matematica, ad esempio, piuttosto che per le lingue straniere; la competenza è quello che noi esercitiamo e miglioriamo, maturiamo attraverso le conoscenze e le esperienze. Queste sono le componenti che portano una persona a studiare e ad affrontare un lavoro in maniera più o meno competente ed "performante". In tutto ciò non bisogna dimenticare la motivazione, che è quella componente che ci permette di essere interessati o meno a svolgere un'attività (lavorativa o non) con più o meno coinvolgimento. Ed è quel fattore che spesso costituisce quel qualcosa in più nello svolgere la propria prestazione, a volte è proprio ciò che fa la differenza.
Lo studio della psiche umana, inoltre, evidenza che ognuno di noi, attraverso ciò che ha imparato, le esperienze che ha fatto e i meccanismi mentali che mette in atto,  interpreta in maniera soggettiva gli accadimenti, legge le situazioni che si trova ad affrontare e di conseguenza agisce (o non agisce) e tutto ciò ha un notevole peso nell’influenzare “quello che sarà”.

venerdì 24 febbraio 2017

La mamma imperfetta



Spesso mi rifaccio alla famosa teoria del pediatra e psicoanalista inglese D. Winnicott che si condensa nella massima che ogni madre dovrebbe stamparsi a caratteri cubitali nella testa: non esiste una madre perfetta, ma solo una madre “sufficientemente buona”. E lo dico e lo scrivo mentre combatto con i sensi di colpa derivanti dalle urla dei miei figli che lottano mentre (più o meno) giocano con la nonna al piano di sotto.
E’ indubbio che la cultura, la società, i modelli e, cosa non da poco al giorno d’oggi, decine di blog e pagine internet, ci propinano la figura della madre non solo “perfetta”, ma eroina, Wonder Woman, che non ha bisogno di dormire per essere performante, che riesce con una mano a guidare il pulmino carico di dieci figli e contemporaneamente cucinare una cena per altrettanti figli (e marito) degna di Carlo Cracco in persona.
Ma credo che la realtà che in tante, se non tutte, sperimentiamo all’interno delle mura di casa nostra, sia molto meno patinata di quella che ci mostrano in pubblicità televisive dove la madre con filo di perle al collo avrebbe appena l’età per essere la sorella o al massimo la babysitter del bambino che ci spacciano come figlio.
Al di là dello scherzo, essere mamma non è facile, e lo dico da mamma, ma anche da persona che per lavoro parla con tante mamme e che ha modo di constatare che sono tante le cose che uniscono le mamme, e spesso non si tratta di un piatto copiato da Masterchef per il pranzo della domenica.
Che sia un bambino, due, tre o quattro (...complimenti!) essere mamma mette molto alla prova se stesse, nella relazione con gli altri, con il tuo piccolo (o piccoli), nei tuoi vari ruoli di madre, moglie, compagna, figlia, nipote, mamma single, lavoratrice, casalinga...
Oltre ai fattori pratici e organizzativi, l’essere madre comporta innegabilmente sempre alti livelli di energie e attenzione, che si accompagnano spesso a quella brutta abitudine di voler sempre e per la maggior parte dei casi rispondere alle aspettative, proprie e degli altri.
E questo, appunto, perché l’idea che ci è stata inculcata dalla cultura di massa, dalla società, che ci viene tramandata dalle generazioni precendenti è di una mamma che accudisce sempre i suoi figli, che spesso mette da parte se stessa, i suoi desideri e ambizioni per il figlio; ma soprattutto che risulta sempre perfetta nel suo ruolo.
E già dai tempi di Winnicott era così, con l’aggravante che al giorno d’oggi la donna deve essere perfetta non solo come madre e casalinga, ma magari deve anche essere una perfetta donna in carriera.
Ora, va bene tutto, ma mi risulta che di Wonder Woman ne sia esistita (se mai è esistita) solo una, e non aveva neppure figli...
Di nuovo, lasciando da parte gli scherzi, una donna, una mamma, è prima di tutto una persona, e in quanto tale ha dei bisogni e una quantità limitata di energie e risorse; può essere quindi lecito che sia stanca, che non sia in grado di cucinare pranzi stellati o che non abbia costantemente voglia di riordinare, ma ciò non significa che non è in grado di svolgere al meglio il suo ruolo di mamma.
Viviamo nella società della performance, del culto del mostrare, nell’epoca del tutto e subito, e difficilmente lo spirito zen e i superpoteri riescono a concentrarsi in una sola persona, a meno che non siate parenti stretti del Dalai Lama. 
Ora, guardiamo da vicino la maternità: l’essere mamma inizia da prima della nascita del bambino e sebbene ci siano alcune donne nate con il desiderio di fare la mamma, ce ne sono altrettante che neanche immaginavano di poterlo diventare. E poi, diciamo la verità, non sempre è così vero che  appena una mamma vede il suo bambino, se ne innamora e pensa che non avrebbe voluto fare altro nella vita se non la mamma. 
La “maternità” inizia, sì, dalla pancia: quando capisci che non sarai più “tu e solo tu”, che molte delle scelte che intraprenderai saranno legate all’essere e benessere di quel ranocchietto che ti sta crescendo in pancia, e che molte delle decisioni che prenderai, dalla casa dove abitare al lavoro da svolgere, alla macchina da acquistare, dovranno tener conto di quell’uno in più
Piccolo, ma molto ingombrante
E se questo da un lato è fonte di infinite gioie e soddisfazioni, almeno in un mondo ideale, dall’altro può rischiare di mettere a serio rischio gli equilibri individuali e della coppia.
Mettiamoci poi le valanghe di aspettative che una mamma ha su se stessa, nei suoi vari ruoli citati sopra, e le aspettative degli altri (dal partner che vorrebbe mantenere l’intimità della coppia tale e quale a prima dell’arrivo del pargolo, agli eventuali parenti e amici che ricordano solo quanto erano bravi i loro bambini e quanto sono stati bravi loro stessi come genitori), ed ecco che le mamme sono caricate di un pesantissimo fardello psicologico, che rischia di pesare come un macigno nella già fragile psiche/equilibrio/salute di una mamma scompensata da livelli ormonali e fatiche.
Ecco quindi che l’obiettivo di una mamma dovrebbe diventare quello di tollerare di non essere la madre perfetta che lei stessa o gli altri si aspettano. Porsi il traguardo della perfezione, data la sua scarsa e irrealistica fattibiltà, conduce a frustrazione, senso di impotenza  che di frequente sono accentuati da quel senso di solitudine che attanaglia le neo-mamme nei momenti di difficoltà, soprattutto nei primi periodi, quando ci si trova per la prima volta in un ruolo nuovo, dove non ci sono regole che realmente siano valide per tutte e tutti sono bravissimi a darti consigli ("se piange così è perché ha fame", "se fa così ha mal di pancia", "ma perché non lo allatti?", "devi sempre tenerlo in braccio, ha bisogno del contatto!", "non tenerlo in braccio che si vizia!"....).
E che dire di quello che succede dopo? Affrontando giorno per giorno con le difficoltà genitoriali che si presentano quotidianamente, anno dopo anno?
Ebbene, Mamme, sappiate che non siete sole. Ci sono tante altre mamme come voi, che provano sentimenti molto simili ai vostri, che sono lontane eppure vicine alle vostre fatiche e al vostro cuore.
Educhiamoci ad ascoltarci, a chiedere aiuto se necessario a chi ci sta vicino, ad un’amica, ad un parente, a fare gruppo, a condividere il bello e il brutto dell’essere mamme. 
E comunque non sarete mai sole, perché con voi, in ogni caso, ci sarà sempre il vostro bambino.




martedì 21 febbraio 2017

C'erano una volta i critici...


C’erano una volta gli opinionisti, i critici cinematografici, gli esperti d’arte. E poi inventarono il web.
E non a caso non molto tempo fa Enrico Mentana, commentando gli interventi di qualche “hater” coniava il termine “webete”, sottolineando il fatto che spesso chi commenta e critica online non sempre lo faccia a ragion veduta, trattandosi frequentemente di persone qualunque che dietro lo schermo e la tastiera o, più semplicemente, con il dito su uno smartphone, vantano un sapere e un’arroganza che neanche Vittorio Sgarbi di fronte ad un’opera di Cattelan.
Purtroppo, o per fortuna, al giorno d’oggi ad una totale e assoluta libertà di espressione su qualunque argomento, chi si espone nello scrivere o nel dire (o nel fare!) una qualsiasi cosa spesso va incontro ad una serie di analisi , commenti, critiche, storpiature... 
E questo accade a un qualsiasi personaggio pubblico o che, suo malgrado, ottiene quei “cinque minuti di notorietà” moltiplicati per milioni e milioni di volte se consideriamo quanto un avvenimento potrà essere postato, ripostato, twittato, condiviso sulle bacheche, visionato su youtube e chi più ne ha più ne metta. 
Ciò che mi spinge a scrivere questo articolo è il fatto che più mi muovo sulla rete e più mi accorgo che chiunque si sente libero di dire (e scrivere) tutto e il contrario di tutto su qualunque cosa. 
Che sia un film, un libro, un fatto di cronaca, una canzone, un personaggio...
Ci sono persone in rete (perchè sempre di persone si tratta, ricordiamocelo) che a volte emettono giudizi verso altre persone, avvenimenti, fatti, senza porsi il problema che forse dietro quella situazione, quel fatto, quella persona ci sono altrettanti fatti, persone, emozioni, pensieri, sentimenti, circostanze di cui non se ne sa nulla, di cui vediamo solo l’aspetto pubblico.
Ma soprattutto, credo che la cosa peggiore sia fare tutto ciò con cattiveria, con il solo scopo di oltraggiare, distruggere, criticare o magari, peggio, divertirsi.
Io sono a favore della condivisione, dello scambio e trovo che sia meraviglioso che grazie agli strumenti tecnologici a nostra disposizione oggi possiamo essere contemporaneamente i molti posti diversi, nonostante le barriere fisiche; sono stupefatta che ci si possa incontrare con persone che si trovano momentaneamente in luoghi agli antipodi della terra, parlare lingue diverse e, in qualche modo, si riesca a capirsi; che sia possibile sapere e vedere cosa sta avvenendo all’altro capo del mondo, mentre io sono seduta sola qui davanti allo schermo del mio pc. E penso che tutti noi dovremmo cogliere l’utilità, la gioia, le opportunità e la libertà che tutto ciò ci dà.
Ma penso anche che tutta questa LIBERTA’ sia a volte utilizzata in maniera veramente superficiale e stupida.
Il fatto è che in molti si sentono liberi di commentare e dire al mondo tutto ciò che pensano, supponendo che al mondo interessi, ma soprattutto, non preoccupandosi minimamente di ferire chi potrebbe leggere. E non mi riferisco a chi in qualche modo fa un lavoro che gli richiede di fornire la propria opinione o a chi ha piacere di scrivere su argomenti di svariato genere, ma penso a chi giudica gli altri (o il lavoro di altri) con opinioni spesso caustiche e distruttive.
Mi è capitato recentemente, per esempio, di leggere commenti (ad essere gentili) "poco lusinghieri" verso la mamma del ragazzo gettatosi dalla finestra a Lavagna giorni fa; rea la signora di aver fatto un discorso al funerale che appariva un po' costruito, attraverso il quale sembrava voler colpevolizzare in qualche modo il figlio e lavarsene le mani della faccenda. Ho detto sembrava, e non è un mio giudizio ma, a detta di chi commentava, dal discorso della madre traspariva questo. 
Detto ciò, io non mi sentirei di giudicare; io non giudico, a malapena osservo. E credo fermamente  che chiunque non sia addentro la storia di questa donna, di questa famiglia, cui è capitata una tragedia immane, possa permettersi di giudicare né lei, né le parole che in quella circostanza le sono uscite dalla bocca.
Questo è un esempio, ma se ne potrebbero fare a migliaia di esempi di come il mondo della rete e dei social sia capace di accanirsi contro persone protagoniste di storie di cui probabilmente pubblicamente se ne conosce solo una parte, e di come ormai ci si trovi costantemente in un tribunale aperto ad ogni ora e in ogni luogo, pronto a giudicare chiunque sia a portata di clic, che si tratti di un fatto o di un film, di un brano musicale o di una persona. Con la stessa ferocia e impietosamente, con lo stesso astio e con lo stesso unico scopo.
Io mi chiedo: ma chi lancia una sua sassata nel web, un suo dardo contro qualcuno nella rete, un tweet di fuoco a commento dell'ultimo fatto di cronaca, si domanda mai chi andrà a colpire? Chi potrà sentirsi coinvolto o ferito delle sue parole? Chi potrebbe sentirsi seriamente minacciato e messo in discussione? 
"Le parole sono importanti" diceva qualcuno, e non solo il come si dice, ma anche il cosa si dice. Le parole hanno un peso, un significato. La comunicazione ha un mittente e un ricevente. Un significato e un significante che possono cambiare a seconda di chi riceve il messaggio. Ognuno di noi porta con sé una serie di significati, di valori, di emozioni e forse non ci si rende conto di quanto poche, banali, semplici parole possano pesare e risuonare nella testa di una persona. Farla sentire coinvolta, triste, arrabbiata, in colpa.
Pensiamoci ogni volta che diciamo o scriviamo qualcosa. E' un principio che sarebbe bene usare sempre quando ci si rivolge a qualcun altro, nel bene o nel male. Se lo facessimo, forse vivremmo in un mondo di relazioni più educate.

venerdì 17 febbraio 2017

Fluttuando tra sogno e realtà nel mondo di La la Land

Brindiamo a coloro che sognano, per quanto folli possano sembrare
Chi lo sa se sarà l’inizio di qualcosa di meraviglioso, oppure ancora un sogno che non riuscirò a realizzare

Per chi come me è cresciuto a pane e favole Disney, non è difficile sentire ogni tanto ancora il desiderio di credere in quei sogni e quelle storie da bambino, dove le eroine e gli eroi si trovavano a lottare per realizzare i propri desideri e alla fine, dopo infinite peripezie, ci riuscivano, spesso con un favoloso happy ending accompagnato da campane nuziali (tranne forse quella poverina di Pocahontas che vedeva partire il suo John Smith).
Oggi, da “grandi”, da qualche parte rimane ancora qualcosa di quel bambino che, vuoi per il passare del tempo, vuoi per le batoste prese sui denti nel tentativo di realizzare proprio qualcuno di quei sogni, rimane un po’ sopito, risvegliandosi ogni tanto e battendo qualche timido colpetto sulla spalla, tentando di farsi un pochino sentire nel frastuono delle incombenze quotidiane.
Ecco, mi è capitato proprio di recente che la bimba che c’è dentro di me si sia fatta sentire, si sia emozionata e abbia ricominciato a ripensare a quei vecchi e impolverati sogni.
Mi è capitato vedendo al cinema il tanto acclamato, amato e allo stesso tempo odiato, osannato e criticato La la Land.
Personalmente penso che, amanti del musical o no, questo film è un’esperienza che chi ha nel cuore ancora un po’ di voglia di sognare dovrebbe provare.
Intanto, ci riporta delle deliziose atmosfere da vecchia Hollywood che ci ricordano gli attori cari a quell’epoca e che sono rimaste figure iconiche e sicuramente irripetibili (Fred Astaire, Ginger Rogers, Gene Kelly, ma anche Grace Kelly, Cary Grant, Audrey Hepburn, solo per citarne alcuni).

Certo è difficile rimanere indifferenti a quei brillanti colori, a quell’entusiasmo e a quella purezza, che rispecchiano le speranze di un’epoca che non c’è più, in un cinema che al giorno d’oggi vive molto più di supereroi che di uomini ordinari, a volte peccando di iperrealismo o di eccessiva crudezza.
La la Land cerca, e in qualche modo ci riesce, a riportare lo scintillio di un’epoca che non c’è più. 
In proposito stato scritto tutto e il contrario di tutto, critiche eccellenti, ma anche molte critiche contrarie, forse proprio perché se ne è parlato tanto, in tanti si sono sentiti di vederlo e di parlarne anche male.
Lo definiscono un musical, anche se le parti cantate e ballate non superano il 50% della pellicola; ovvio, è un film in cui la musica ha un ruolo molto importante, e che include scene surreali di balli tra le stelle o tip tap improvvisati per la strada, e questo può piacere, ma anche no.
Fatto sta che si tratta di una storia, una bella storia, forse non originalissima perché è qualcosa di già visto, ma sicuramente molto originale per come è raccontata.
Due giovani, due artisti, o che per lo meno vorrebbe esserlo, e che vorrebbero veder riconosciuta la loro arte; tra i due sboccia l’amore, sebbene non si tratti del classico colpo di fulmine da Hollywood, ma un amore che nasce e cresce pian piano, tra battibecchi grotteschi e spassose prese in giro reciproche.
Si incontrano, si scontrano, non si piacciono e poi si piacciono, si innamorano e si amano, e tanto.
Ma coltivano anche dei sogni professionali simili, che in qualche modo vanno in direzioni diverse: l’una diventare un'attrice famosa e acclamata, l’altro di suonare il jazz, genere “morente”, in locali dove la sua musica possa essere realmente apprezzata. 
Si rivelano essere sogni non semplici da realizzare, perché per farlo bisogna scontrarsi anche con chi la tua arte non l’apprezza, con i gusti del mercato, con le dure regole del business e a volte con l'amore per un'altra persona.
Mia e Sebastian, così si chiamano i protagonisti, si danno manforte a vicenda e si spronano a dare il meglio l’uno dell’altra, si spingono  vicendevolmente a sperimentarsi in situazioni nuove e sfidanti e a buttarsi. Purtroppo però, si sa, la vita è fatta anche di compromessi e può capitare che per veder realizzati i propri sogni succeda di dover scendere a patti, accettando di cimentarsi in qualcosa che non sia proprio frutto della purezza dell’arte, oppure accade che qualcosa a cui hai dedicato anima e corpo, mettendo te stesso a nudo e in gioco fino al midollo, non venga apprezzato così tanto dal tuo pubblico.
Oppure accade che il tuo sogno personale sia in contrasto col sogno d'amore...
Freud agli albori della psicanalisi definiva il sogno come una finestra sull’inconscio, qualcosa che apriva una visione sui desideri più segreti e più intimi di una persona.
A me, che tendo a sposare un approccio un po’ diverso da quello freudiano, piace definire un sogno come una meta, come qualcosa sospeso tra il reale e l’irreale, qualcosa che dà una spinta, la motivazione per porsi degli obiettivi da raggiungere.
In fondo i sogni ci servono per dare benzina a quello che facciamo, alla nostra vita, ci danno una speranza, spesso ci danno la forza di andare avanti.
E questa è anche una storia che emoziona, grazie a tutto l'insieme (regia, alchimia tra gli attori, musica) e al suo fascino retrò che danno a questa pellicola “quel certo non so che”, rendendola qualcosa di diverso dal solito, che ti rimane dentro, che ti pervade e ti fa ripensare, che ti risuona anche parecchi giorni dopo la visione.  
C’è un certo senso di malinconia che aleggia in tutto il film che ti porta a domandarti dove siano finiti i veri sognatori e a chiederti se veramente si può vivere dei propri sogni; a chiederti quanto costa credere nei sogni e se vale realmente la pena di provare a realizzarli.
Con malinconia ti domandi dove è finito quel meraviglioso mondo della vecchia Hollywood, quando si poteva danzare un valzer tra le stelle o sospirare tanto per un bacio tra i due splendidi protagonisti.
La stessa malinconia che ti fa sperare che da qualche parte ci siano tanti sognatori che riporteranno la luce in questa epoca così buia.

mercoledì 15 febbraio 2017

La resilienza di Bebe

Il 2016 è stato un anno d’oro per Bebe Vio, in quanto protagonista assoluta delle paralimpiadi di Rio de Janeiro e vincitrice di diversi titoli, tra i quali la medaglia d’oro individuale di fioretto. 
Questo traguardo, tra le altre cose, le ha permesso di diventare popolarissima e in breve tempo la si è vista sempre più spesso ad eventi (sportivi e non) come rappresentante finalmente di virtù positive nei giovani e in particolare per i ragazzi italiani.
Personalmente ho iniziato a seguire Bebe già qualche anno fa, quando per alcuni progetti lavorativi in ambito motivazionale, ero alla ricerca di un testimonial che mostrasse come, anche nelle situazioni e circostanze più terribili e avverse che ci possono capitare nella vita, sia possibile trovare una via d’uscita, e Bebe  l'avrebbe dimostrato in maniera egregia. Purtroppo il progetto non  andò in porto e non mi fu possibile quindi conoscerla personalmente.
Beatrice (questo il suo nome completo) a causa di una meningite fulminante contratta all’età di 11 anni ha perso, causa amputazione, entrambe le braccia e le gambe. 
La cosa che ha dell’incredibile e che fa di Bebe un esempio di tenacia, forza d’animo e positività e che questa “ragazzina” anziché abbattersi, arrabbiarsi con la vita e chiudersi in se stessa per la disperazione, ha preso queste tremende vicissitudini come ulteriore stimolo per continuare lo sport che adorava (la scherma) attraverso l’utilizzo di protesi, nonché con un continuo e durissimo allenamento del fisico e anche della mente.
Quello che colpisce di Bebe, oltre la sua innegabile volontà e forza d’animo, è il sorriso che non smette mai di accompagnare le sue apparizioni, dalla gare in pedana alle numerose interviste che ha rilasciato negli anni.
Ciò le ha permesso di raggiungere dei traguardi stupefacenti, che vanno oltre le medaglie, acquisite peraltro con una sicurezza tale che hanno reso la competizione con altre avversarie quasi inesistente; Bebe è diventata un viso familiare, presente ad eventi mondani, di moda e televisivi, dimostrando come sia possibile vivere la diversità in modo diverso.
Bebe è anche emozione, gioia e forza che ti fanno stupire della sua gioia di vivere; Bebe è energia pura che ti convince che le parole de "La mia ragazza magica" di Jovanotti sono state scritte e pensate per lei; Bebe è una ragazza di diciotto anni che ti fa sentire in colpa ogni volta che non hai avuto la sua stessa gioia di vivere a fronte di piccoli ostacoli che ti sono capitati sulla strada.
Bebe è uno speciale esempio di come gli eventi che possono capitare ad una persona sono interpretati e filtrati attraverso la mente individuale e di come ognuno di noi, anche in base a come è fatto, alle sue motivazioni, ai suoi desideri e ambizioni possa mettere in atto i comportamenti ed le azioni volte al conseguimento dei propri obiettivi. 
Così, la nostra cara Bebe anziché farsi abbattere dagli spiacevoli eventi che le sono capitati, anziché crogiolarsi nei suoi dolori, ha preferito porsi nuovi obiettivi e darsi da fare, con impegno, dedizione e tenacia, che l’hanno poi portata a raggiungere ciò che noi tutti conosciamo. Un vero esempio di resilienza


Brava Bebe, sei un vero esempio di positività e fonte di ispirazione per tutti coloro che non si vogliono arrendere.

https://www.youtube.com/watch?v=3ZNHL5byXUM