Il caso di Michele, il ragazzo di 30 anni che ha lasciato una arrabbiata e struggente lettera di addio prima del suo suicidio, e quello di Martina, 36enne assunta da un’azienda veneta al nono mese di gravidanza, sono due casi dall’esito diametralmente opposto, che mettono al centro dei discorsi il mondo del lavoro e ne mettono in risalto luci e ombre.
Due storie che vedono come protagonisti, loro malgrado, due persone della stessa generazione che si trovano a vivere quello che dovrebbe essere uno dei momenti professionali centrali della vita in un’epoca particolarmente faticosa, a causa di un contesto economico e sociale dove, lo sentiamo dire tutti i giorni, i “giovani” hanno poche opportunità di realizzare i propri sogni professionali, per non parlare del semplice bisogno di portare “la pagnotta” a casa.
Le aziende, è inutile negarlo, sono alla ricerca del meglio a meno, su tutti i fronti, e se da un lato si cerca di risparmiare su materie prime, costi di trasporto e manodopera, dall’altro sono in poche a voler rinunciare alle prestazioni, che si tratti di una macchina o un essere umano.
Le condizioni economiche attuali ci portano a puntare alle performance, spesso non tenendo conto del valore delle persone e (spesso) non considerando le storie personali.
Per questo colpiscono il caso di Martina e Michele, perché sono due storie di persone, due volti che personificano gli angeli e i demoni di cui sentiamo parlare giornalmente da tv, telegiornali, trasmissioni di approfondimento: disoccupazione, discriminazioni e frustrazioni in ambito lavorativo.
Dietro a tutto ciò di cui sentiamo parlare, raccontare, spesso numeri alla mano, ci sono delle storie, delle persone con le proprie esperienze, i propri vissuti, le proprie emozioni.
Dietro a ognuno di quel 12% di disoccupati in Italia (di cui il 40,1% sono giovani tra i 15 e i 24 anni) ci sono storie, spesso fortunatamente non così drammatiche come quelle di Michele, ma purtroppo non sempre fortunate come quelle di Martina.
Sappiamo quanto un grosso peso lo rivestano i fattori economici micro e globali, ma in ogni storia hanno anche peso le persone che la popolano, gli incontri, le circostanze.
Gli individui, poi, hanno ognuno il proprio modo di filtrare quello che gli si para davanti, la realtà che forse non è mai veramente oggettiva e neutrale come si vuol credere.
Michele ha espresso attraverso il suo scritto rabbia e frustrazione, un giovane che si è visto privato della speranza e del futuro, e questo lo ha portato a sentire un grande peso da non poter gestire. Il peso del rifiuto, la fatica di vedersi continuamente le porte sbattute in faccia, probabilmente lo avranno fatto sentire ad un certo punto così triste e depresso da giungere all’amara decisione che tutti conosciamo.
Ora, non sappiamo esattamente cosa questo ragazzo abbia vissuto, quali rifiuti abbia subito, ma sappiamo che la realtà per come appariva al povero Michele era insostenibile, e non possiamo mettere in discussione questo, lo dobbiamo accettare, così come la sua seppur amara decisione.
A Martina invece è stata data un’opportunità; un’opportunità di quelle che fanno parlare, che risuonano nei titoli dei giornali, perché purtroppo non accadono spesso. Martina probabilmente se le sarà cercate queste opportunità e probabilmente (non lo sappiamo) avrà avuto anche lei le sue porte sbattute in faccia. Fatto sta che un po’ grazie a se stessa, al suo talento e alle sue qualità, al suo “coraggio” nel presentarsi ad un colloquio di lavoro prossima al parto, ma anche grazie alla lungimiranza di un imprenditore che le ha dato un’opportunità, è riuscita a firmare un contratto per un impiego nelle condizioni di quasi puerpera che, al giorno d’oggi, sappiamo essere un evento praticamente più unico che raro.
Queste due storie, accomunate dal tema del lavoro, sono molto differenti nel loro svolgimento e nel loro epilogo; da un lato entrambe ci insegnano che la realtà dei fatti ha un suo peso nell’evolversi delle storie e sui “destini”; dall'altro lato dimostrano che esistono fattori individuali come le attitudini, le esperienze e le competenze individuali che influenzano come le persone interpretano gli eventi che capitano loro e come fanno fronte ad essi.
L'attitudine è la componente più innata, che porta una persona ad essere più portata per la matematica, ad esempio, piuttosto che per le lingue straniere; la competenza è quello che noi esercitiamo e miglioriamo, maturiamo attraverso le conoscenze e le esperienze. Queste sono le componenti che portano una persona a studiare e ad affrontare un lavoro in maniera più o meno competente ed "performante". In tutto ciò non bisogna dimenticare la motivazione, che è quella componente che ci permette di essere interessati o meno a svolgere un'attività (lavorativa o non) con più o meno coinvolgimento. Ed è quel fattore che spesso costituisce quel qualcosa in più nello svolgere la propria prestazione, a volte è proprio ciò che fa la differenza.
L'attitudine è la componente più innata, che porta una persona ad essere più portata per la matematica, ad esempio, piuttosto che per le lingue straniere; la competenza è quello che noi esercitiamo e miglioriamo, maturiamo attraverso le conoscenze e le esperienze. Queste sono le componenti che portano una persona a studiare e ad affrontare un lavoro in maniera più o meno competente ed "performante". In tutto ciò non bisogna dimenticare la motivazione, che è quella componente che ci permette di essere interessati o meno a svolgere un'attività (lavorativa o non) con più o meno coinvolgimento. Ed è quel fattore che spesso costituisce quel qualcosa in più nello svolgere la propria prestazione, a volte è proprio ciò che fa la differenza.
Lo studio della psiche umana, inoltre, evidenza che ognuno di noi, attraverso ciò che ha imparato, le esperienze che ha fatto e i meccanismi mentali che mette in atto, interpreta in maniera soggettiva gli accadimenti, legge le situazioni che si trova ad affrontare e di conseguenza agisce (o non agisce) e tutto ciò ha un notevole peso nell’influenzare “quello che sarà”.